Il seguente articolo è a cura di Massimo Marciani, presidente FIT Consulting, ed è edito all’interno del Dossier UE 2021 “Politiche europee ed impatto sul territorio” del Centro Studi e Ricerche di SRM.
Il documento integrale è disponibile qui.
Nel mondo pre-COVID 19 la sostenibilità, in vari settori dell’industria, compresa la logistica, era legata soprattutto all’ambiente. Anche nella logistica marittima e nella filiera estesa della blue economy la sostenibilità era percepito come un tema che riguardasse sostanzialmente le minori emissioni del sistema di trasporto.
Una concezione limitata della sostenibilità che le diverse ondate della pandemia hanno spazzato via portando alla nostra attenzione il concetto di resilienza, la necessità di garantire a questo comparto e ai suoi stakeholder una business continuity lungo tutta la filiera produttiva. Una continuità indispensabile alla nostra società.
Nel new normal abbiamo abbracciato un concetto di sostenibilità esteso, anche sociale ed economico. Questa presa di coscienza e il contestuale accesso ai finanziamenti del PNRR ci impongono di cogliere le occasioni nel breve periodo, relative allo sviluppo di un’economia circolare anche nella logistica, centrata non solo nuovi e più ecologici carburanti e motorizzazioni ma anche su nuovi modelli organizzativi e, soprattutto, sull’abbandono del concetto di economia lineare “estraggo, utilizzo e smaltisco” che sembrava il paradigma della lotta alla povertà. Non si tratta più di produrre più beni per tutti ma di produrre quello di cui la società ha bisogno, seguire i prodotti nel loro life cycle e alla fine recuperarli e avviarli a nuovi utilizzi (Fig.1).
Figura 1 – i due esempi di cicli produttivi (fonte Ellen Mc Arthur Foundation)
In questo nuovo scenario la logistica, anche quella marittima, giocherà un ruolo fondamentale. Molte aziende multinazionali di primaria importanza stanno ragionando sul re-shoring degli impianti di produzione.
Abbiamo a disposizione dei driver che sono dei veri “game changer” del settore: lo sviluppo di modelli etici nel lavoro, l’attenzione dei clienti finali agli aspetti ambientali, la mancanza di manodopera qualificata e non qualificata nel settore, la congestione nei porti, la digitalizzazione spinta. Ultima, ma non meno importante, la necessità di ridurre le emissioni climalteranti e, nello specifico, quelle derivanti dal trasporto.
Il sistema Paese si trova di fronte a una opportunità senza precedenti per avviare una sorta di nuovo Piano Marshall. Un’opportunità che è una grande responsabilità per tutti noi. È il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, un totem a cui tutti ci rivolgiamo e che crediamo essere il “silver bullet” che porterà un nuovo rinascimento nel nostro Paese.
Si deve gestire al meglio un tesoretto di circa 61 miliardi di euro suddiviso su due missioni: la prima è la Rivoluzione Verde e la Transizione Ecologica; la seconda sono le Infrastrutture per una Mobilità Sostenibile. In buona parte è un indebitamento che stiamo trasferendo alle future generazioni. Per questo motivo questi investimenti devono operare una svolta e un reale salto di discontinuità nel nostro Paese. Non basterà completare azioni o progetti che avevamo messo in cantiere anni addietro e che per vari motivi non siamo riusciti a realizzare. Non ripescare cassetti progetti che non avevano trovato attuazione negli anni passati ma rendere il nostro Paese veramente competitivo, anche in termini logistici. E questo vuol dire progettare e poi realizzare un ecosistema digitale fortemente legato alla trasparenza dei processi, consentendo alla merce di poter essere tracciata dal momento in cui viene prodotta al momento in cui viene non più consumata ma riciclata. Perché il consumo non è la fine del prodotto ma è uno step del ciclo di vita del prodotto che, una volta utilizzato, deve essere recuperato, riciclato e rimesso in uso (Fig. 2).
Figura 2 – i cicli di recupero (fonte: European Commission)
Per questa ragione è fondamentale pensare a una roadmap che preveda che gli investimenti con i fondi PNRR in grado di rispondere non solo alle esigenze logistiche attuali ma, soprattutto a quelle del 2030 o del 2050. Il nostro Paese deve essere, Al completamento del Piano, l’Italia dovrà ottenere un forte vantaggio competitivo. Non basterà soltanto colmare il gap logistico che abbiamo scavato negli anni fra l’Italia e – ad esempio – la Germania e Paesi Bassi. Siamo intorno al ventesimo posto nella classifica dell’efficienza logistica, Logistic Performance Indicator) ma sarà fondamentale trovare, grazie al PNRR, l’opportunità di un futuro da protagonisti nella logistica, l’industria delle industrie.
Se le stime di crescita del nostro Paese prevedono una crescita del PIL del 6,1% nel 2021 e un successivo assestamento nel 2022, questo aumento non potrà mai essere raggiunto senza componente logistica, il motore dell’economia che incide in misura consistente nella composizione del valore. Ricordiamo che il nostro Paese è un grande esportatore. I dati dell’Osservatorio SRN evidenziano che il 30% di tutto quello che parte dall’Italia verso i mercati stranieri si muove via mare, la seconda modalità per importanza dopo la strada e che il nostro un export verso gli USA è pari al 24% del totale. L’economia del mare, quella che transita attraverso i nostri porti, vale circa il 3% del PIL.
Da una analisi delle missioni del PNRR emerge una grande attenzione al trasporto ferroviario, con molti investimenti indirizzati ai soggetti che si ritiene siano più in grado di una progettazione esecutiva e di impegnare i fondi entro il fatidico 2023. Questo potrebbe dare l’impressione, speriamo smentita dai fatti, che i finanziamenti all’interno del PNRR siano stati organizzati più per opportunità che non per necessità, puntando di più in quelle aree dove il Governo ha pensato di avere maggiore facilità di investimento.
Abbiamo infatti l’obbligo di rendicontare a Bruxelles – entro il 2026 – investimenti per circa un milione e 300mila euro al giorno. Un impegno che non è stato mai preso da nessun Governo prima d’ora, in nessun tempo e in nessun luogo.
Premesso quanto sopra, l’impressione che si ha esaminando i testi pubblicati dal Governo e tenendo conto di quanto comunicato nelle diverse audizioni parlamentari che si sono succedute in questi mesi, è che i contenuti del PNRR sono più quelli di uno strumento che abbia guardato indietro, piuttosto che guardare avanti al futuro, alla innovazione ed alla efficienza del nostro Paese.
Non c’è, all’interno del PNRR, nessun elemento che ci permetterebbe di essere leading country nei prossimi anni. Non c’è un’idea che sia davvero innovativa; piuttosto si è puntato a colmare le nostre carenze strutturali con questa formidabile iniezione di finanziamenti.
Dal punto di vista dell’industria logistica, guardando alle prospettive di sviluppo dei prossimi anni, c’è da chiedersi se il just in time è un modello che ha un futuro o se è definitivamente tramontato, spazzato via dall’emergenza COVID-19 e dalla necessità di sviluppare sempre più modelli resilienti.
Ma qual è la giusta velocità della transizione?
Stiamo assistendo a fenomeno di reshoring da parte delle aziende più importanti, che stanno riportando la propria produzione più vicina ai mercati di consumo. Abbiamo, in questo momento, una situazione molto più favorevole rispetto ad alcuni Paesi dell’Asia importanti per la produzione industriale. Il Vietnam, la Malesia, la stessa Cina, vivono una situazione pandemica molto preoccupante. Nella tempesta logistica che stiamo subendo si inseriscono alcuni driver che non sono sotto il nostro controllo. La mutevole situazione pandemica in Paesi che sono i nostri mercati primari di consumo, la carenza delle materie prime, l’aumento del costo dei combustibili, il contingentamento applicato dalla Cina all’impiego dell’energia elettrica per contenere l’inquinamento. Tutti elementi che pongono uno stress fortissimo sulla catena logistica globale con aumenti di sette volte del costo noli marittimi, con tempi di attesa per le merci che, nei principali porti statunitensi sono passati da tredici ore a tredici giorni. Tutto ciò ha un impatto devastante per chi fa logistica.
Ormai tutti siamo perfettamente consapevoli che un cambio di paradigma sia necessario e non più differibile. E che se è arrivato il tempo di ridare le carte il nostro Paese, da sempre escluso dai grandi giochi del settore logistico, potrebbe avere una mano buona.
L’economia verde non è un’opzione, è una necessità. Il COP26 ci ha resi consapevoli che il cosa –la decarbonizzazione – non è più in discussione ma è fondamentale sapere come e quando raggiungere l’obiettivo. Per questo non riteniamo necessario predisporre un ennesimo Piano Generale dei Trasporti e della Logistica, di cui tante versioni si sono succedute in questi anni, mai realizzati, vecchi fin dal momento della loro pubblicazione. Le dinamiche di riallineamento ed evoluzione del mercato dell’industria logistica sono infinitamente più rapide di quelle della predisposizione di un masterplan. Abbiamo perso l’occasione di definire una roadmap del settore per concordare il modello di fuel mix e capire come poter utilizzare al meglio le diverse tecnologie in un arco temporale tra il 2030 e il 2050, di come un sistema dei trasporti fondato sull’utilizzo dei carburanti fossili potesse essere prima affiancato e poi completamente sostituito dai nuovi prodotti energetici come bioGNL, l’elettrico e l’idrogeno.
In Italia manca ancora una strategia industriale e logistica E quest’ultima, la logistica, industria delle industrie, ne risente per prima. Che paese immaginiamo di avere nel 2030 o nel 2050? Quali saranno i settori di punta su cui investire? Saremo un Paese a vocazione turistica? Punteremo sull’accoglienza e sui prodotti agroalimentari di nicchia ad alto valore aggiunto? Oppure realizzeremo le nostre eccellenze nel settore della digitalizzazione?
Non possiamo fare a meno di rivolgere un accorato appello al Presidente del Consiglio Mario Draghi e al Ministro dell’Economia e delle Finanze Daniele Franco per fare riportare all’interno del PNRR il tema delle priorità di questo Paese, una visione al 2030-2050. Non dobbiamo mai dimenticare che le somme che impegneremo grazie a questo formidabile strumento costituiscono di fatto una forma di indebitamento che peserà sulle future generazioni. Se non saranno indirizzati a uno sviluppo sostenibile – sia dal punto di vista ambientale sia da quello economico/sociale – si rischierà di compromettere per sempre il futuro dell’Italia.